“È tutta colpa di quella mia boccaccia…”, ripeteva pensieroso il dottor Panzani, intrattenendo gli altri notabili di Sabbiedolci. La schiera di panciotti domenicali guardava cupa i vetri del Caffè Belmondo e all’unisono annuiva sorseggiando al sole certi buoni aperitivi al seltz. L’avvocato Spinetta si sarebbe aspettato dal Panzani, medico condotto coscienzioso, un’ipotesi più strettamente clinica, come un’intossicazione da monossido di piombo, ma il dottore godeva di una tale stima, che se anche avesse blaterato di un fantomatico filtro stregato e velenoso portato da un cliente straniero, Spinetta non l’avrebbe contraddetto, anzi, sarebbe rimasto com’era, ben schierato nel coro di giunchi della Sabbiedolci bene, gente ostinata negli inchini d’assenso, sempre pronti a scoprire, davanti all’ “ipse dixit”, le nuche rosee mai offese dal sole e dal lavoro vero.
Non era solo un fatto di autorità, comunque, il buon medico sapeva il fatto suo, quello altrui e aveva avuto un ruolo attivo in quello che poteva dirsi l’antefatto, a ben guardare. Tanto si reputava causa, che il Panzani pagava, per senso di colpa, per buon cuore e per spirito di carità cristiana, un mozzo, un moccioso balbuziente del paese, affinché carrucolasse un pasto caldo al Maestro, come lo chiamavano tutti senza mai far confusione con altri figuri, anche per non scomodare genealogie di suoi avi non cattivi, ma certamente poco illustri. Questo certo non comportava che il discolo, il balbuziente, avesse un lasciapassare per il laboratorio del vetraio, sia chiaro, è solo ch'era nato, per puro caso, in due stanze al primo piano dello stesso stabile e, dalla sua finestra, poteva calare un cestino, proprio nel cortiletto annesso al retro della fornace, dove il Maestro teneva depositi di sabbie e di numerose sostanze segrete, con le quali produceva le opalescenze, le limpidezze e le rifrazioni che lo avevano reso famoso in tutta Europa.
Questo sfortunato bimbetto aveva paura di quell’illustre alchimista, per quanto la curiosità gli rosicchiasse i pensieri resi intermittenti dal modo zoppicante di parlare. Aveva paura, non solo perché la madre, un guscio vacante tutta rosari e penitenze, gli aveva spiegato il calore ascendente della fornace con tanti racconti dettagliati dei novantanove ingressi per l’inferno, ma soprattutto perché proprio non capiva quando e in che modo il Maestro sdoganasse quella sbobba dal vimine che gliela sospendeva davanti alla porta sul retro dall’alto con la corda. Una volta il povero “Tatà”, come lo chiamavano tutti, rimase appostato davanti alla finestra, vigile e nascosto, una notte intera, pur di vedere il Maestro estrarre una zuppa di borlotti dal canestro, calato per l’occasione dal lato illuminato del cortile, quello appunto esposto al chiar di luna. All’alba poi, spazientito e affamato, ritirata la cordicella per godersi i legumi freddi trascurati dal misantropo, dovette sorprendersi e prendere atto dello smacco, di un piatto vacante e di un insolito biglietto con su scritto “grazie”.
Che il Maestro, usando la diabolica fornace, avesse davvero varcato una di quelle 99 porte? Che fosse divenuto un dannato spettro affamato di fagioli, per quanto non visibile?
Non eran dello stesso avviso i clienti americani, giunti a Sabbiedolci dopo mesi di sballottamento, tra piroscafo e binari, per trovarsi, ancora dopo un anno di tenace permanenza, con un bel palmo di naso.
I businessmen sostenevano che il Maestro non fosse affatto sprovveduto e rimbambito e davano invece per certo che si fosse rintanato nel bugigattolo per fare più “precious” la sua arte, e rendere più “expensive” i manufatti. Questa pragmatica lettura del ritiro sembrava comprovata dai biglietti scivolati per mano loro sotto la porta serrata del negozio, tutti pasticciati di offerte al rialzo, ora per il lampadario perfetto per una sala da ballo a Chicago, ora per il servizio di bicchieri con cui corredare il matrimonio di una grassa figlia del Maine.
Questi aspiranti compratori erano arrivati al punto di stilare una lista con l’ordine di arrivo, onde evitare che la furberia dell’ultimo arricchito, gli facesse venire la tentazione di scavalcare i primi “arrivati”, che avevano fatto di Sabbiedolci una residenza quasi principale. A nessuno di quegli affaristi, comunque, per quanto fossero agguerriti, sarebbe venuto in mente di vendere la propria posizione in quella speciale graduatoria, a riprova del fatto che c’è sempre nella vita qualcosa che davvero non ha prezzo.
Le comari del paese gioivano solo con mezzo sorriso di tutti gli stranieri facoltosi che, dovendo alloggiare in qualche posto ed essere “sfamati”, finivano per rimpinzare di contante le tasche delle padrone di casa, e i loro ventri di figli, mentre gli ignari mariti sgobbavano nei campi, ancora convinti d’esser poveri. Le streghe gioivano solo a metà perché in fondo volevano bene al Maestro e si corrucciavano della sua clausura. Aveva un certo peso tra questi canoni di gemiti e sospiri, la tesi romantica, accesa dalle chiacchiere dell’Angioletti, moglie del postino, la quale confidò in gran segreto, a tutto il paese, di certe lettere profumate che il Maestro avrebbe ricevuto mesi prima di serrare l’uscio, fatto accaduto proprio nel giorno in cui, al posto della solita, sarebbe arrivato all’artista un telegramma. "La lettera d’un lutto di sicuro" secondo l’Angioletti, tesi, questa, comprovata dalla vetrina dell’atelier, oscurata nel corso d’una notte, da un cristallo nuovo, di un nero impenetrabile e brillante, come fatto d’ossidiana. Si diceva, insomma, che questa "lei" inaspettatamente fosse morta. “Una nuova trovata commerciale del mago” commentarono allora gli artigiani concorrenti, “cristallo d’uomo in lutto” ribadiva la “postinaia”, come la chiamavano sprezzanti i misogini e i respinti, ricollegando quello scherzo dell’arte a un esito infelice nella corrispondenza privata dell’artista.
In verità, comunque la si guardasse, la faccenda restava oscura, quanto la lastra buia dietro la quale l’uomo si era barricato, un giorno, per non concedere più, ad alcuno, nulla di sé e della sua magia.
Forse l’unico a sfiorare il vero, in modo però vago, fu per l’appunto il Panzani di cui sopra, il quale esibì il vantaggio, sui suoi concittadini, d’aver fatto visita al Maestro poche settimane prima che questi si rendesse inaccessibile:
- Non so più cos’è reale, cosa è creato dalle rifrazioni dei cristalli e cosa dalla mia immaginazione. Dottore, che cosa posso fare...? –
Così aveva spiegato il Maestro nel tono più oggettivo, mentre il medico lo scrutava col suo aggeggio dentro agli occhi.
Panzani qual gradasso, certo che la vista del paziente funzionasse a perfezione, la rassicurò con una metafora che valicava di molto le competenze a sua disposizione e che, secondo i suoi successivi sensi di colpa, si sarebbe rivelata gravida di conseguenze:
-La mente umana, sa, è un dodecaedro, e non dovrò dilungarmi nel dire proprio a lei come il mondo diventa, visto per quelle rifrazioni: sa bene che è impossibile guardare una faccia senza perdere la percezione delle altre, e sa bene che la minima inclinazione della lente, modifica del tutto l’univoca realtà a vantaggio del molteplice. Ma lei faccia così: scelga un'immagine... voglio dire, che cosa cambia? Infine, si comporti come noi... l'immagine, la renda sua, ci creda, in fondo tutto il vivere è un atto di fede... -
Il Maestro annuì pensieroso e Panzani lasciò il negozio di cristalli. Era sereno il medico in quei giorni, perché s’era compiaciuto della propria intelligenza e aveva considerato quel fare riflessivo dell’artista, l’inizio di una certa guarigione. Ma quell’indizio di una presunta e facile prognosi fu poi disconfermato dalla lena del Maestro, mentre il dotto bellamente s’imbrodava di un successo inesistente, nel costruire un “dodecaedro perfetto in cristallo speciale” che gli avrebbe restituito tutto il mondo intero, come disse, parlando tra sé, l’inaccessibile artigiano, da tutti lontano coi pensieri. La rincuorante dedizione a tale manufatto, del tutto ignoto ai compaesani, si era quindi ben presto trasformata in ossessione, mandando in malora quella prognosi e facendo ricredere il Panzani sul beneficio della sua intelligenza nella vita altrui.
Il Maestro aveva smesso di uscire, di mangiare perfino, per dedicarsi unicamente a quel cristallo e aveva finito per cacciare l’emerito dottore, accorso nuovamente con altre buone ma più umili intenzioni. Era stato da allora, che in quella fucina, di lì a poco, s’era tumulato vivo, come detto.
Il medico crucciato, se ne sentì colpevole a lungo, imputando alla vanità sua e di quella sfaccettata metafora lo sconquasso avvenuto nella mente, fino a prima appena confusa, di quel genio d’un vetraio.
Ci vollero mesi e mesi, e fu solo con l'arrivo dell'estate che il Maestro, riconcependo se stesso soltanto un umile vetraio, di nuovo aprì i battenti, stanco, smagrito, allampanato. Allora i compaesani tutti si raccolsero davanti al suo negozio. A loro, che a lungo lo guardarono confusi, disse solo:
- Però una verità c'è sempre, ci vuole solo la pazienza di scovarla. - e nel dir questo alzò una mano in cenno di saluto e si rimise a lavorare.