Ieri ho letto un breve trafiletto in cui si riportavano affermazioni distensive di Biden sulla questione cruciale di Taiwan, isola “occidentalizzata” in bilico tra la definizione internazionale di “stato indipendente” e quella di provincia cinese da riannettere entro breve al governo comunista di Pechino. Ora, il punto è che i toni distensivi di Biden avevano nell’articolo, come contraltare, il chiaro interesse (economico) degli Stati Uniti a mantenere Taiwan indipendente per questioni strategiche legate agli hardware del futuro. Scrivo questo perché la mia impressione, provata ieri nel leggere questi passaggi, è stata che il quadro dei conflitti a livello mondiale si andrà sempre più complicando in un futuro non troppo lontano.

Abbiamo visto con la pandemia come un evento iniziato in luoghi remoti possa avere ricadute pesantissime in tutto il mondo e l’apertura di nuovi conflitti non farà eccezione. A questo, in un’immediata libera associazione, si sono subito aggiunte nella mia mente alcune immagini della guerra alle porte dell’Europa e del conflitto in Israele, impantanato in questioni fortemente identitarie e in faccende inestricabili di diritto internazionale.

In tutto questo interverrà (e sta intervenendo) anche il cambiamento climatico, e per di più con evoluzioni in gran parte imprevedibili, per tempi e modalità di crescita. In un momento, mettendo insieme tutto questo, ho pensato: quanto è legittimo bersagliare mediaticamente le iniziative relative all’incremento della nostra spesa militare? Chi, come me, è nato dopo il 1960 (tralasciamo gli anni della ricostruzione) ha goduto in Europa di un lungo periodo di pace e prosperità, ebbene: quanto diamo per scontato che sarà sempre così? E quanto è pericoloso il darlo per scontato? Il cambiamento climatico interpella da un lato l’umana e universale empatia per il prossimo, il quale è sempre un singolo (o un gruppo, anche grande, di singoli), e dall’altro interrogativi inquietanti: noi italiani saremo in grado di strutturare delle soluzioni di accoglienza che creino una reale integrazione quando a muoversi non saranno “gruppi di singoli”, ma una vera massa? Sapremo farlo noi, poveri tra ricchi ed esposti sulla frontiera labile tra le terre roventi e le economie liberali in cui non eccelliamo?

In natura, quando avviene il cambiamento radicale di un habitat, le creature che lo albergano sopravvivono in relazione a due variabili: la capacità/velocità di adattamento della specie a rischio e il tempo in cui avviene questo cambiamento. In particolare: tanto più repentino sarà il cambiamento, tante meno saranno le possibilità degli organismi meno dotati di adeguarsi a esso. Quanto velocemente il cambiamento climatico spingerà queste masse a muoversi?

Ovviamente non scrivo questo per azzardare una relazione diretta tra l’inasprimento del clima, l’emigrazione e la disponibilità di risorse in occidente e nel nostro paese; però, altrettanto, sarebbe puerile fingere che il fattore tempo della pressione migratoria non sarà di cruciale importanza nella possibilità di attuare una reale integrazione. In cosa potrà mai consistere questa, se i numeri cresceranno in tempi brevi? Cosa diremo e cosa daremo a coloro che, venendo pieni di sogni, aspettative e speranze, troveranno un paese (ancora) pieno di bellezza e ingegno, ma molto povero di opportunità? Tutti amiamo i singoli individui ben oltre le differenze, perché la nostra è già una società complessa da decenni e perché noi italiani sappiamo affezionarci alle persone al di là di ogni “etichetta”, ma non possiamo far finta che non esista molta demagogia anche nell’antinazionalismo, al di là delle “solite” faccende identitarie proprie del nazionalismo.

 

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